La VII compagnia del XII battaglione inquadrato nei ranghi del V reggimento della III brigata di fanteria leggera giunse in vista del villaggio di Saint Margherite-Au-Mont alle ultime ore del pomeriggio.
I soldati si sarebbero fermati una sola notte in quello che si presentava ai loro occhi come un piccolo villaggio montano, costituito da una trentina di edifici costruiti sia in muratura che in legno; unica eccezione era la piccola chiesa del paese, un’antica costruzione in pietra nella quale gli abitanti, ora frettolosamente fatti evacuare per far spazio alle truppe e ai rifornimenti, si riunivano ogni domenica ad ascoltare la messa.
Attorno a Saint Margherite gli uomini del genio avevano montato una decina di grandi tende adibite tanto ad ospedale e ricoveri di retrovia che ad alloggi per quegli sfortunati soldati cui non sarebbe stata concessa un’abitazione del villaggio.
Il ragazzo sperò con tutto il cuore di essere assegnato ad una casa, soprattutto se in essa fosse stato presente un vero letto ed una fonte di calore poiché le scomode brande militari erano dotate di un sottilissimo materasso duro come la roccia e di una copertina estiva inadatta ormai tanto alla nuova stagione quanto all’altitudine del luogo. Inoltre le piogge degli ultimi giorni avevano reso il terreno fangoso e l’acqua aveva sicuramente aderito alla tenda trasformandola in una soluzione precaria fredda e umida.
Quando si presentò davanti al maresciallo addetto alla dislocazione dei soldati, un uomo robusto sulla quarantina con folti baffi neri mal curati su un modello che il ragazzo avrebbe definito teutonico, si identificò come sergente Matteo Brambilla, comandante della IV squadra.
“Un altro studentello eh?” esclamò seccato il sottoufficiale squadrando il ragazzo e arricciando il naso in segno di fastidio.
Chi gli stava davanti non doveva avere più di diciannove anni, non era molto alto e sicuramente non era robusto; l’elmo modello Adrian 1926, un’alternativa concessa dall’esercito rispetto al più classico M31, arrivava quasi a coprire gli occhi azzurri e l’uniforme, verde scuro M1940, era leggermente troppo grande per chi la indossava.
“Sissignore. Sono ancora uno studente signore” rispose Matteo mettendosi goffamente sull’attenti, facendo attenzione a non scuotere troppo il pesante zaino militare che ancora teneva sulle spalle.
“Volontario. Scommetto quaranta Pakis che sei uno di quelli che hanno spintonato per essere tra i primi ad arruolarsi per questa campagna sognando gloria e onori” disse il maresciallo con un’espressione disgustata.
“Nossignore. Estratto come allievo sottoufficiale per la mia città signore” rispose il giovane mantenendosi sull’attenti.
“E cos’ha fatto in modo che proprio tu sia stato scelto? Destino? Caso?” chiese l’altro.
“Ad essere sincero signore, credo sia stata solo sfortuna signore” rispose sinceramente Matteo, salvo poi irrigidirsi all’improvviso “Cioè, intendevo dire che sarebbe stata una sfortuna non essere scelto, rimanere a casa con i miei amati libri e i miei pensieri… Cioè con il tedio di tutti i giorni, a studiare, giocare, non morire. Cioè …”
Il superiore scoppiò in una fragorosa risata: “Non preoccuparti ragazzino. Qui siamo quasi tutti ex coscritti o arruolati ai tempi della leva di massa.”
Matteo si tranquillizzò senza però riuscire a scacciare la paura di essere punito per le parole che aveva pronunciato con troppa leggerezza.
“Tu e il tuo gruppo potete stabilirvi … nella casa del pastore Zubiri. Si trova in fondo a questa stradina, poco prima della piazza della chiesa. Non potete sbagliare”
Mentre i dieci uomini della squadra si avviarono velocemente verso la loro sistemazione, Matteo rimase fermo davanti al maresciallo che lo fissò imbarazzato.
“Cosa stai aspettando? Raggiungi i tuoi compagni e riposati. Domani per voi sarà dura”
“I miei quaranta Pakis signore. Per la scommessa” rispose sommessamente il ragazzo
Con un’ultima fragorosa risata l’uomo estrasse due banconote da 20 Pakis e una manciata di monete (3 Risti, 3 soldi e 2 bronzes) e lo mandò via con una sberla sulla nuca.
Matteo non riuscì a credere alla sua fortuna, aveva una vera casa dove passare la notte e 50 Pakis da aggiungere alle sue magre finanze.
Raggiunse i membri della squadra alla casa del pastore Zubiri, una casetta a graticcio su due piani, bianca al piano terra e di un vivo blu cielo al primo, con le travi di legno dipinte di nero o di un marrone molto scuro ed il tetto di piastrelle grigie.
Era bellissima, la più bella e la meglio tenuta del villaggio dopo la “villa” (in realtà una cascina con annessa garitta) poco fuori dal centro abitato dove si era stabilito il quartier generale, segno che probabilmente a Zubiri le cose non andassero poi così male pensò Matteo mentre accarezzava il muro esterno e le travi, affascinato dai colori.
Entrò infine nell’abitazione depositando lo zaino con l’equipaggiamento sul pavimento dell’anticamera e con prudenza il porta-granate, da dove si poteva intravedere l’impugnatura di una delle tre Stielhandgranade M43 in dotazione, su un tavolo insieme al Carcano M41.
Il salotto con pavimento in parquet di rovere nel quale entrò incontrando i suoi uomini era così arredato:
Al centro della sala, sopra un bel tappeto simil-persiano rosso e verde, era posizionato un grande tavolo circolare in legno bianco con disposte attorno sei sedie del medesimo colore.
Ad un capo della stanza era presente un camino di mattoni rossi con accanto una grande pila di legna da ardere per riscaldare l’ambiente nei mesi invernali e che ora stava facendo imprecare il soldato semplice Franke, un giovane e massiccio muratore dai cortissimi capelli rossi proveniente da Osnastadt, il quale, con scarsi risultati, cercava di accendere il fuoco e le cui bestemmie provocavano le grasse risate del caporale Katrakis, uno dei due soldati di professione della squadra, un calvo trentacinquenne dai lunghi baffi neri alla tartara proveniente dal porto di Megodes.
All’altro capo era posizionata un divano giallo canarino su cui erano poggiati due piccoli cuscini color rosa prosciutto avente al lato destro un mobile dov’erano disposte alcune statuette di legno raffiguranti vari animali, un piccolo set di bicchieri artigianali che probabilmente costituiva il servizio buono, una serie di foto aventi come soggetti un uomo e una donna oppure una famigliola felice in montagna ed una decina di libri, la maggior parte dei quali riguardavano l’allevamento dei bovini.
Davanti al divano era invece presente un televisore di medio-piccole dimensioni (30 pollici?) che il soldato semplice Paquet, un elettricista dai modi rozzi che operava nella provincia a maggioranza francese, stava accendendo.
Da una delle due porte che, insieme alle scale che portavano probabilmente alle camere da letto, completavano la descrizione della stanza, giunse un urlo di gioia.
“Durkh got!”
Matteo riconobbe la voce del vecchio caporale Avrum Levi, un simpatico cinquantenne con capelli neri che ormai tendevano al grigio e che era rabbino a Baronago, un paese vicino al suo.
Gli piaceva Avrum. Con lui parlava di qualcosa di più culturalmente elevato rispetto all’amore per il calcio che lo legava ad altri soldati della squadra. Passava ore ad ascoltare i suoi ragionamenti sulle sacre scritture e discutevano sui personaggi che le costellavano.
Avrum era forse l’unico a far dubitare Matteo della naturale superiorità della storia rispetto alla filosofia, che lui personalmente riteneva materia che per troppo tempo aveva rubato spazio, tempo ed importanza alla storia, sicuramente ed infinitamente più nobile.
“Sergente… Guardi cosa ci hanno lasciato i commilitoni che ci hanno preceduto. Birra!!!” disse mentre teneva in mano una piccola cassa di birra Kaizer Paradise, la bionda che andava per la maggiore tra le truppe e che l’azienda produttrice non si mostrava certo avara nel rifornire l’esercito, soprattutto grazie al contratto milionario che da almeno vent’anni legava queste due potenti realtà del Paese.
“Kaizer Paradise, se non esistesse, dovrebbero inventarla” recitava il suo slogan più celebre ma nell’esercito era più famoso il motto dei suoi dirigenti ovvero “Guerra, se non esistesse dovremmo inventarla”.
Immediatamente dalle scale si precipitarono al piano terra gli ultimi quattro membri della squadra, il soldato Porinowski con il suo flauto dolce, il soldato Ammarigo che qui faceva quello che faceva nel suo paese ovvero il riparatore di scarpe, la soldatessa Van Meetz unica donna del gruppo e impiegata di una ditta di costruzioni ed infine il giovanissimo soldato Timberton studente liceale.
I nove membri della squadra circondarono la cassa e presero tutti una bottiglia mentre Matteo, guardandoli con un sorriso si avvicinò alla porta d’uscita venendo però fermato dalla voce del caporale Katrakis che lo esortava ad unirsi a loro nella bevuta.
“No grazie. Non amo la birra, credo che andrò a fare un giro per il paese. Ricordate che questa non è casa vostra e quindi non distruggete niente, o almeno nulla che i signori ufficiali giudicheranno di valore e soprattutto non affisso al pavimento una volta che avremmo abbandonato questo posto” rispose cordialmente all’offerta il sergente mentre prendeva con sé lo zaino ed alcuni dei soldati si misero a ridere.
La prima cosa che Matteo notò una volta fuori dall’abitazione fu che le nuvole che avevano accompagnato la marcia del mattino si erano diradate lasciando spazio ad un freddo sole invernale i cui raggi, caldi in estate, parevano deridere i soldati della VII compagnia.
Le strade erano piene di militari che, deposti gli zaini e le armi più ingombranti nelle abitazioni, avevano pensato di distrarsi dall’imminenza della battaglia giocando a carte sui tavoli di una locanda chiusa, a calcio in uno spiazzo tra due case, bevendo tranquillamente all’aperto oppure, con sommo disappunto del sergente, gettando dalle finestre libri le cui pagine probabilmente sarebbero servite a ravvivare il fuoco dei camini.
Giunto all’ingresso della piazza si accorse che intorno alla chiesetta erano stati allestiti delle bancarelle improvvisati dove alcune persone, forse abitanti del villaggio che non avevano voluto abbandonare le loro case e di quelli vicini, stavano vendendo generi alimentari, chincaglierie varie, beni di conforto e, sorprendentemente, anche libri.
Decise quindi di fare un giro in cerca di possibili affari, soprattutto se si concludessero in baratti per lui vantaggiosi
In cambio della sua accetta ottenne due bottiglie di vino da 1,5L, una di bianco che avrebbe diviso con i suoi sottoposti e una di rosso che avrebbe tenuto per sé o per un futuro scambio, due sacchetti di pasta ed uno di riso, un barattolo di fagioli ed uno di pomodori.
Per la stecca di sigarette Bullseyes (altro contratto milionario con l’esercito) previsto nel kit del soldato ottenne invece due barattoli di ragù, un sacchetto di verdura mista (soprattutto carote e patate) e uno più grande di frutta (mele, uva, mandaranci e pesche).
In cambio del set da barba e 40 pakis, riuscì ad acquistare del sale, roast beef, prosciutto, salcicce (meglio wurstel?), lombata e filetto.
Giunto all’ultima bancarella, la quale vendeva libri, si mise a studiare con attenzione ogni fila di volumi; con suo dispiacere si accorse che la maggior parte di essi erano saggi su agricoltura e allevamento, con qualche opera religiosa e romanzetto rosa che in situazioni diverse avrebbe comprato mettendolo a confronto con i libri delle nonne per analizzare l’evoluzione del romanzo popolare d’amore (o avrebbe pianificato di fare).
Quando fu sul punto di desistere, notò nell’angolo, seminascosta, una collana di libri che, dal simbolo che campeggiava sul contenitore, parevano editi dalla casa editrice Germinale, legata al Partito Socialista Havelano, un piccolo partito che si poteva identificare come anello di congiunzione tra centrosinistra (Partito Liberal Radicale) e sinistra (gruppuscoli extraparlamentari comunisti e anarchici).
Avvicinandosi lentamente, si accorse che la collana altro non era che una vecchia raccolta di opere di Marc Bloch. A Matteo brillarono gli occhi dall’emozione; Bloch non era un semplice storico, era un martire caduto nella lotta contro il nazifascismo, e colui che aveva rivoluzionato la storiografia.
Si voltò emozionatissimo verso il venditore indicando rapidamente la collana e chiedendo cosa volesse in cambio o quanto costasse per poi comprendere di aver manifestato troppo apertamente il suo desiderio compromettendo qualsiasi trattativa a suo favore.
“250 Pakis” rispose prontamente l’interpellato dopo essersi svegliato da uno stato di dormiveglia subodorando la possibilità di spellare un soldato che aveva commesso l’errore di mostrarsi vulnerabile.
“Non ho così tanto con me… Non può scendere a 100?” ribatté Matteo con tono esitante e esibendo un sorriso colpevole.
“COSAA? Starai scherzando, posso scendere al massimo a 240” sentenziò sdegnato il venditore.
“180?” propose nuovamente esitante Matteo
“Vada per 180 più quella” rispose l’altro indicando una delle fondine ai fianchi del giovanissimo sergente.
Matteo si voltò preoccupato verso il suo fianco sinistro, verso la Luger M08 di famiglia, la bellissima pistola che era stata di suo nonno e che le era stata donata dal padre prima che partisse per il corso da sottoufficiali.
Non avrebbe mai rinunciato ad un cimelio così prezioso (l’altro, un OVP1918, era andato allo zio prima ed ora al cugino), l’unico modo per toglierglielo sarebbe stato dalle sue fredde mani morte, come diceva quel fanatico delle armi americano.
Alzando però la testa, si accorse che l’ambulante stava indicando il fianco destro, nella cui fondina era presente la per lui sacrificabile P38. Non le era mai piaciuta quella pistola nonostante somigliasse alla Luger, forse perché suo nonno paterno, fin da quando era piccolo, gli diceva che le P38 erano solo per nazisti e terroristi.
Non avrebbe perso nulla a disfarsene, tanto più che all’accademia aveva barattato con un allievo ufficiale tutte le sue sigarette mensili e i suoi 33cl. di birra a settimana in cambio di un altro pezzo di storia, una Welrod MkII uscita dagli stabilimenti della Birmingham Small Arms Company nel 1942 e non da una fabbrica nazionale oggi.
Estrasse quindi la pistola, la disarmò e la porse a venditore.
“Perché togli i proiettili?” domandò innervosito l’uomo.
“Tu avevi parlato solo della pistola, i proiettili non erano compresi mi pare” rispose prontamente il ragazzo infilandoseli in un primo momento in tasca salvo poi tirarne fuori tre porgendoli al contraente “ma dal momento che mi sento generoso voglio dartene tre in omaggio”
“Bene. Ora prendi quei libri e sparisci” mugugnò scontroso l’ambulante mentre passava a servire un altro cliente.
Matteo si spostò verso la collana prendendola ma proprio in quel momento si accorse che il contenitore della stessa era attaccato al contenitore di una seconda collana sui grandi storici della rivista degli Annales in cui era inserito per errore anche un libro sulla Firenze medievale di Gaetano Salvemini ed un volume di E.H. Carr sulle relazioni tra Unione Sovietica e Germania
Sorpreso dalla grande fortuna si chiese se dovesse informare dell’accaduto il venditore, soprattutto perché i proiettili che gli aveva regalato erano dei .32 ACP, inutili per una P38. Poi pensò che dopotutto la pistola da sola compensava grandemente la perdita e non era certo colpa sua se casualmente le due collane si erano attaccate diventando a tutti gli effetti una sola.
Convintosi di ciò si allontanò cercando di non dare nell’occhio ed entrò nella chiesetta.
Era un edificio in stile paleocristiano piuttosto scarno, senza immagini alle pareti, senza statue se non un grande crocifisso in fondo all’edificio che non possedeva illuminazione artificiale ed era servita da sei finestre e con una decina di panche di legno disposte su due colonne di fronte ad un altare di semplice legno di cedro ricoperto da una tovaglietta bianca e su cui era poggiato un messale che Matteo si premurò accertarsi fosse in latino.
“Perfetto. Dei Lefebvriani iconoclasti. Gente, il concilio Vaticano I ha sconfessato le anacronistiche idee del vostro profeta e il concilio di Trento ha riconosciuto l’importanza delle immagini. Andiamo…” pensò il ragazzo che continuò ad aggirarsi per qualche minuto nella misera chiesa, dopodiché uscì tornando dai suoi uomini.
La casa era ancora in piedi, le finestre erano chiuse ed intatte, il camino stava fumando e dall’interno provenivano le note della marcia dei granatieri inglesi; Matteo estrasse la bottiglia di bianco dallo zaino ed entrò, accolto dall’odore di verdure e salcicce cotte in brodo segno che a cucinare quella sera era stato Franke.
La IV squadra passò la sua prima ed ultima sera a Saint Margherite cantando, ballando e vuotando la bottiglia acquistata nel tardo pomeriggio; alle 22:30 una ronda della polizia militare bussò alla porta imponendo agli occupanti di coricarsi poiché l’indomani la sveglia era categoricamente fissata per le 6:30 e che l’intera compagnia era chiamata a partecipare alla santa messa officiata dal cappellano del reggimento che i soldati chiamavano Monsignor l’Imboscato specie da quei suoi confratelli, più giovani e vecchi, che non erano riusciti ad ottenere l’ambito incarico e che quindi sarebbero stati costretti a dividere la scomodità della trincea con laici, atei, rossi ed ebrei.
Terminata l’estrazione a sorte tra i subordinati per decidere chi avrebbe dormito nei cinque letti disponibili (uno era di diritto riservato al militare di rango superiore), il sergente cedette cordialmente il suo letto a Van Meetz che, prima di ringraziarlo, gli chiese se il gesto lo avrebbe ripetuto anche per un uomo ottenendo risposta negativa.
Dopo aver preso un cuscino dal divano ed aver preso una coperta pesante da uno degli armadi di una delle camere, si sdraiò sul tappeto ed attese che il sonno lo prendesse. Nei pochi minuti di attesa, pensò a cosa sarebbe successo nei prossimi giorni, cosa avrebbe provato durante la marcia fino alle trincee, come sarebbe stato il suo battesimo del fuoco e cosa gli avrebbe lasciato quest’esperienza.
A circa 7 chilometri dal villaggio, al limite meridionale di un ampio altopiano spoglio e roccioso, sorgeva, leggermente sopraelevata rispetto all’intera area, una piccola ridotta costituita da due edifici difesi da una cinta muraria improvvista con l’accesso ostacolato da uno SPA TM40, una trincea profonda circa 1,90m intervallata da due passaggi e due obici Type 92 70mm.
Completava le difese, oltre a 50 uomini di presidio, una TK-37 posta al centro della trincea e costantemente oggetto delle attenzioni di due soldati.
Alle 14:30 il sergente maggiore Calas Egal, 17 anni, si preparò ad uscire dall’edificio più piccolo, facente le funzioni di magazzino e dormitorio per la truppa, dopo aver dormito cinque ore nel corso delle quali il suo sonno ha dovuto combattere contro i rumori provenienti dall’esterno come la ginnastica mattutina, i lavori di manutenzione di muro e trincea e soprattutto i tiri di prova dei due pezzi d’artiglieria.
Odiava fare il turno notturno poiché significava lunghe ore esposto al freddo e al buio. In territorio ostile e senza l’ausilio di una fonte di luce artificiale, il faro era rimasto al campo base della compagnia insieme agli altri 50 componenti della stessa a causa della parziale impraticabilità della strada sterrata dietro di loro, i soldati a guardia della trincea di notte dovevano far ricorso quasi esclusivamente all’udito, cosa che fece sprecare nelle prime notti un numero inammissibile di munizioni per la loro attuale situazione.
Calas si mise in testa lo Stahlhelm M35 nascondendovi dentro i suoi corti somali dreadlocks che gli avevano provocato problemi con alcuni commilitoni poiché non lo ritenevano un taglio da vero soldato, prese da un tavolo il suo MP34 e, uscendo dall’edificio-dormitorio, si diresse verso il casolare più grande a due piani in cui, insieme al dormitorio per i tre ufficiali di rango superiore (un sottotenente, un tenente ed un capitano), c’era una stanzetta che fungeva da cucina da campo e una grande sala serviva da mensa e area relax.
Attraversando lo spiazzo tra le due costruzioni sentì il fuoco degli obici, maledicendo quello che, a suo parere, non era altro che uno spreco di preziosissime munizioni ma che per il signor capitano costituiva un prezioso esercizio di preparazione alla battaglia che credeva imminente e che, nuovamente secondo il giovanissimo sergente maggiore, difficilmente sarebbe stata vinta nel caso avessero esaurito le munizioni per l’artiglieria.
Questi colpi inoltre erano sparati senza sfruttare l’intera gittata dei Type 92 (oltre 2,2 km) limitandosi a colpire alcuni ruderi nei pressi della postazione ad eccezione di una sorta di silo posto in cima ad una piccola collinetta.
Quando lui ed il tenente Diallo, un quarantenne calvo e veterano di fronti e battaglie più importanti di quella che probabilmente sarebbe stata una semplice scaramuccia di confine, obiettarono che sarebbe stato meglio distruggere quella che era una lama puntata alla loro gola, il signor ufficiale capitano Sow rispose deridendo quella che bollava come una paura infondata; il nemico non sarebbe mai arrivato fino a quel punto.
Solo dopo molte insistenze il tenente riuscì ad ottenere il permesso di stabilirvisi con una guarnigione di appena sei soldati perché, parole del capitano “Non sono disposto a spendere più braccia per difendere una posizione sicura. Buona licenza tenente”.
Entrando nell’edificio, Calas si accorse che la mensa era vuota, fatta eccezione per il cuoco, il soldato semplice Bennani, che raramente prendeva parte ad esercitazioni o lavori all’esterno a causa del piede destro equino, che se ne stava seduto alla tavolata centrale.
Questi era un giovane di ventitré anni, alto e barbuto, con radi capelli neri proveniente dal distretto a maggioranza maghrebina. I suoi genitori possedevano un ristorante di cucina tradizionale marocchina e per sei anni, fino alla sua chiamata alle armi nell’attuale campagna, era stato il responsabile della preparazione dei dolci, tanto che ora non rinunciava mai, ogni sera, a servire uno dei suoi dessert tra cui i Kaab El Gazhal che quel giorno facevano la loro bella figura su una delle tavolate.
Quando il cuoco si accorse di non essere più solo si alzò immantinente e si diresse verso il nuovo venuto salutandolo calorosamente.
“Ben svegliato signor sergente. Cosa le posso preparare?” dal tono si poteva ben capire perché tutti nella compagnia, ad eccezione forse del capitano, amassero Bennani.
Era sempre disponibile, pronto a venire incontro alle richieste anche del più arrogante e prepotente dei guitti, se anche solo uno dei suoi commilitoni lo avesse richiesto probabilmente avrebbe cucinato un proprio braccio o una gamba e sempre con il sorriso sul volto.
“Cos’hanno mangiato oggi gli altri?” chiese Calas sorridendo distrattamente mentre si avvicinava ad un mobiletto su cui erano appoggiati una trentina di libri appartenenti ai soldati della compagnia e che costituivano insieme la biblioteca comune.
“Una pseudo Tajine di pesce senza crostacei e condimenti se non un poco di zenzero e zafferano. Ne è rimasta giusto una porzione, non è più molto calda però.” Rispose il cuoco con una punta di rammarico finale “Posso comunque prepararle dell’altro…” continuò dimostrando tutta la sua disponibilità.
Calas, dopo aver preso il libro che si era portato dietro e che aveva messo a disposizione degli altri ed essersi seduto togliendosi nel mentre la giacca, rivolse un cenno di assenso a Bennani “Fa niente. Va bene lo stesso”
Il cuoco corse in cucina a prendere il piatto uscendone qualche attimo dopo anche con una caraffa d’acqua “Ecco a lei signor sergente, scusi ancora se non è caldo. Prenda pure quanti Kaab vuole, è il minimo che posso offrirle”
“Ma così stasera a cena non ce ne saranno abbastanza per gli altri…” constatò retoricamente il sottoufficiale
“Ohhh, non si preoccupi. Lei ne mangi pure quanti ne vuole. Il pomeriggio è ancora giovane e posso prepararne altri prima di iniziare a cucinare la cena” disse il cuoco “Ora, se mi permette, vado in magazzino a contare le scorte” e si allontanò.
Calas si concentrò quindi sulla consumazione del pasto e sul suo libro, un’edizione piuttosto usurata della biografia di Giovanni IV scritta da Zewdre Gebre Selassie.
Concluso il pasto e riposto il volume sul mobiletto, il sergente maggiore raggiunse le trincee dove una decina di soldati stava osservando in direzione della trincea del nemico che i suoi genieri avevano rapidamente allestito ad una distanza sufficiente perché i loro obici non fossero troppo efficaci.
“Quando pensi che arriveranno i nemici?” chiese un giovane caporale dalla carnagione molto scura mentre teneva in mano una sigaretta accesa.
“Non ne ho idea e non lo voglio nemmeno sapere. Il momento peggiore è l’attesa e la cosa più importante è non preoccuparsi troppo dell’arrivo o meno del nemico” rispose un alto maresciallo cinquantenne dalla barba bianca ben curata che teneva le mani nelle tasche della giacca militare.
“Perché non si sbrigano dannazione. Prima si inizia e prima si finisce diceva sempre mio padre” disse un terzo, seduto a terra, riparato dalla trincea.
“Hai veramente così tanta fretta di combattere soldato?” chiese Calas avvicinandosi al gruppo.
Alla sua vista i soldati semplici e il sergente si ricomposero mentre il maresciallo gli andò incontro.
“Sergente maggiore Egal. Perché da queste parti? Chi ha svolto il turno di notte ha diritto alla giornata di riposo” chiese il maresciallo.
“Non riesco a riposarmi con tutto questo rumore e con la tensione che si respira nell’aria signor maresciallo. Non c’è niente che possa fare?” rispose Calas mettendosi sull’attenti.
L’altro sottoufficiale si guardò intorno e con un’aria pensierosa scosse la testa in segno di diniego.
“In questo caso le chiedo il permesso di poter raggiungere la posizione del tenente Diallo per accertarmi della situazione e poter riferire al capitano”
“D’accordo. Porta i miei saluti al signor tenente” rispose il maresciallo.
“Non mancherò signore. Se ho il suo permesso …” concluse Calas mentre, dopo essersi messo nuovamente sull’attenti, si allontanava dal gruppo inoltrandosi nella terra di nessuno in direzione dell’improvvisato avamposto.
Lo scarno e pietroso territorio, interrotto solo da pochi alberi e qualche spiazzo erboso, nauseò il sergente maggiore, disturbato dalla povertà del paesaggio e dubbioso sulla reale importanza di questo fronte per la vittoria decisiva contro il nemico.
Quando raggiunse il silo si accorse che fervevano lavori all’entrata dell’alto edificio in cima al quale era presente una piattaforma circolare che dominava l’altopiano.
A guidare i lavori, naturalmente, c’era il tenente che ogni tanto guardava con preoccupazione verso le posizioni del nemico per ora ancora vuote ma che si sarebbero sicuramente riempite di nemici che come prima cosa, si sarebbero scagliati in massa contro l’edificio.
“Buongiorno signor tenente” disse Calas mettendosi sull’attenti e distraendo l’ufficiale dai propri pensieri.
“Sergente Egal. Mi fa piacere vederti. Cosa sei venuto a fare?” chiese il tenente Diallo sorridendo al suo subordinato.
“Sono venuto a vedere come sta e a sapere se le serve qualcosa dalla trincea” rispose Calas prontamente.
“Se ci fosse la compagnia al completo ti chiederei di mandare più uomini ma con la metà degli effettivi è inutile sacrificare più uomini indebolendo le difese della base” disse il tenente con un leggero senso di amarezza.
“Cosa dice signore? Siete su una posizione più elevata rispetto al nemico, siete un eccellente ufficiale e avete ai vostri ordini alcuni degli uomini migliori della compagnia” cercò di rassicurarlo il sergente maggiore.
Il tenente gli prese la mano e lo trascinò fino ai margini dell’altura che si affacciava sul lato dell’altopiano da cui sarebbe arrivato l’attacco nemico e gli indicò il terreno.
“Ci sono troppi grandi massi dove il nemico può ripararsi durante l’assalto, inoltre il dislivello non è tanto forte da costituire un problema agli attaccanti. Mantenere la posizione sarà molto difficile con solo 7 uomini se non impossibile”
“Allora perché rimanete qui signore? Voi sette ci sareste più utili in trincea piuttosto che qui a farvi uccidere” implorò Calas con una punta di disperazione nelle sue parole e sul volto.
“Se rinunciassimo a difendere questo sito i tiratori del nemico avrebbero fin da subito un buon punto da dove bersagliare le nostre posizioni”.
“Ma la mitragliatrice…”
“Non credo che possa fare molto a questa distanza”
“I nostri obici allora …”
“Quegli idioti ai pezzi che ci siamo portati dietro non saprebbero colpire la loro gargantuesca incapacità in una situazione di calma, credi che saprebbero fare un lavoro migliore in mezzo alla battaglia?” chiese retoricamente il tenente Diallo.
A quel punto Calas chinò la testa sconsolato e disse “Quindi questo è un addio tenente?”
Il tenente non rispose subito, fissò l’orizzonte per qualche secondo, poi, senza voltarsi verso il suo subordinato disse “Ti piace studiare?”
“Signore?” chiese interdetto il giovane.
“A me piaceva molto studiare matematica ed ero anche piuttosto bravo” continuò il tenente ignorando la domanda.
“Ma poi arrivò la guerra e mi arruolai. Anche quella c’era stata presentata come il conflitto che avrebbe posto fine a tutte le guerre contro il nemico annientandolo ma naturalmente non fu così. io credetti alle parole di quei politici e quei generali, e lessi entusiasta le esaltanti e magnifiche promesse riportate dai giornali di un magnifico domani per il Paese e il suo popolo.”
“Continuo a non capire la domanda signore” lo interruppe Calas.
“Quando la guerra si concluse tornai a casa ma non riuscii più ad amare la matematica come prima. Mi arruolai per la campagna successiva e per quella dopo ancora, finché non finii per diventare un militare professionista. Quindi te lo richiedo Calas. Ti piace studiare?”
“Certo signore, mi piace studiare storia e geografia” rispose il ragazzo ancora insicuro sul significato di quella domanda.
“Perfetto. Sopravvivi a questa inutile campagna, torna a scuola. Diplomati. Laureati. Diventa un professore, un geografo, uno scrittore o anche un semplice libraio. Non fare il mio stesso errore, mio e di molti altri. Non farti intrappolare in una spirale di bugie e illusioni che ti costringeranno a combattere ancora ed ancora in guerre che non avranno alcun risultato se non l’inutile sacrificio di migliaia di giovani vite”
Detto ciò il tenente si mise sull’attenti e con un sorriso affettuoso lo congedò con un addio senza tristezza o paura.
Calas si mise sull’attenti tremante dall’emozione e rispose all’addio, dopodiché si mise a correre deciso a perorare la causa della sopravvivenza del tenente davanti al signor capitano.
Raggiunta la trincea chiese dove si trovasse l’ufficiale e lo raggiunse all’interno dell’edificio più grande dove stava consumando una razione di caffè insieme al sottotenente Monanda.
“Signore. Sono il sergente maggiore Egal. Vorrei parlarle del tenente Diallo” disse Calas mettendosi sull’attenti.
“Prego sergente maggiore. Proceda pure” lo incoraggiò il capitano mentre beveva da una tazzina di ceramica bianca con decorazioni turchesi.
“Signore. La posizione del tenente Diallo è troppo importante per cadere nelle mani del nemico ma le forze a disposizione del tenente non sono sufficienti per difenderla adeguatamente”
“E allora?” chiese il capitano inarcando un sopracciglio.
“Il tenente non vuole abbandonare la sua posizione ma sicuramente se lei glielo ordinasse …”
“E perché dovrei?” chiese l’ufficiale senza mostrare alcuna preoccupazione per il suo sottoposto.
“Signore, se lei scrivesse l’ordine di ritirarsi io potrei correre a portarlo al silo, una volta tornato con i sette uomini potremmo colpirlo con il fuoco degli obici e …”
“Per caso lei è maggiore signore?” intervenne allora il sottotenente
“No signor sottotenente ma non vedo come questo possa centrare con …” disse Calas voltandosi verso il secondo ufficiale.
“Centra centra” disse il capitano alzandosi “Vede sergente maggiore. Il Tenente Diallo ha deciso spontaneamente di non seguire le mie disposizioni ed andare un inutile edificio. Quindi, se muore, potrà biasimare solo sè stesso”
Calas era esterrefatto. Ricordava benissimo che furono proprio lui e il tenente a consigliare al capitano di bombardare e distruggere il silo e fu solo il rifiuto opposto dall’ufficiale di grado più alto a spingere il tenente ad occuparlo.
“Signore. Non starà dicendo che è disposto a sacrificare 7 uomini solo perché qualcuno le ha proposto l’unica cosa giu…” disse il ragazzo senza accorgersi di star alzando la voce.
“Sto dicendo, SERGENTE, che esiste una gerarchia e che se non la si rispetta questa è una delle conseguenze inevitabili” rispose il capitano sottolineando in modo beffardo il grado di Calas.
“L’altra è l’obbligo di fare nuovamente il turno di notte senza cenare” continuò il sottotenente ridacchiando.
“Ha sentito il suo superiore SERGENTE Egal? Raggiunga il dormitorio, riposi fino alle 19 e poi vada subito in trincea per la guardia senza passare da qui”
Calas era furioso, non tanto per essere stato condannato ad una pena assurda e irrazionale, quanto per il fatto che queste due merde umane stavano condannando a morte sette sottoposti perché volevano dimostrare di avere il potere di farlo.
“Ora può andare sergente” lo congedò bruscamente il capitano.
Mentre stava per lasciare la mensa Calas venne raggiunto dal soldato Bennani che, senza farsi vedere dagli ufficiali, sussurrò all’orecchio del sergente: “Prima di raggiungere la trincea, passi davanti al questo edificio senza entrare. Uscirò con una scusa e le darò qualcosa da mangiare”
Calas guardò Bennani, lo ringraziò sorridendo e poi uscì per dirigersi al dormitorio.
Entrato in questo edificio trovò il maresciallo che nel primo pomeriggio gli aveva permesso di andare al silo.
“Ho sentito la tua conversazione con quegli idioti. Verso le due di notte verrò alla trincea a darti il cambio, dovrai rimanere accanto a me ma almeno potrai dormire qualche ora”
Calas ringraziò nuovamente il secondo atto di gentilezza ricevuto dopo la beffa ricevuta e quindi si mise sulla branda pensando che quella notte non sarebbe stata tanto pesante dopotutto.